Una guida per perdersi

di David Laurenzi


“Che poi noi si sia soprattutto ciò che ci manca, ciò che si manca... Beh, questa è davvero tutta un’altra storia.”

Carmelo Bene

Una fila di molliche in cerca di formiche, un coacervo di testi slabbrati e deliranti... Il mio piccolo omaggio (lunghetto anzi che no) a Etimologia di una idea... Farsi segno di un viaggio di Simone Di Stefano (di seguito semplicemente detto Simone o, poco ragionevolmente, contratto nell'acronimo SDS).  

Una mostra monstre, mi dico (con “brillante” gioco di parole, di cui mi compiaccio), sentendo parlare Simone del suo nuovo progetto espositivo; articolato, disteso, fluente nel tempo e nello spazio (reale – qualunque cosa ciò voglia dire – e virtual/digitale), come pure nelle intenzioni e nelle ambizioni.
Una, nessuna e centomila mostre.

Nella vita, anche e soprattutto quella artistica, ci sono periodi dinamici, attivi, ricchi di percorsi da costruire, e altri di quiete, di accumulo, di apparente stasi. Questi ultimi sono fondamentali, fecondi, ma anche pericolosi... C'è chi si ferma e non riparte più, si appende al chiodo, per così dire.

Non è questo il caso di Simone Di Stefano, perché...
Simone si (ri)mette in cammino; su terreni incerti, accidentati, quelli della vita di tutti, complicata a dir poco. Anche quando hai complici e muse, stelle fisse che ti circondano, la vita è comunque sconnessa, fatta di buche e dossi, di fedi che rischiano di sfarinarsi, di vento che alza nubi di terra o di sabbia a ogni tuo passo.

Simone mi invita al suo studio, a vedere i nuovi lavori e io vado... vado a vederlo partire, vado a vedere quadri mai visti e subito mi si solleva davanti un gran polverone, che mi fa chiudere gli occhi e lacrimare... di gioia, perché, quando li riapro, le sue opere sono lì, identiche a quelle che conoscevo e amavo, eppure irriconoscibili, spiazzanti... Qualunque sia il supporto materiale che le abiti e innervi (tela, argilla, ceramica, cartapesta, la sua stessa pelle e il suo corpo quando si fa volume e traiettoria nello spazio/tempo della performance), sono lì, familiari e aliene.
Simone si è mosso, come nel gioco "un, due, tre, stella!". Conto, mi giro e sembra fermo, appena oscillante, eppure ha cambiato di posto, e la sua arte con lui... E avanza, anche se immobile, quando ancora mi volto.
Ma non vuole vincere, non vuole toccare il muro contro cui nascondo gli occhi. No, si muove per andare dove deve, secondo regole sue, traiettorie impreviste.

Fuori i nomi! Come in un terzo grado, in piena notte, ma con tutti i colori e le forme in gioco ben davanti agli occhi, in una luce che solo apparentemente ci acceca... Se sia io a fare le domande a Simone, o lui a farle a me, è cosa che rimane in sospeso.
Fuori i nomi!... Influenze, amori, suggestioni, altri pittori, artisti a cui Simone si sente vicino e/o a cui io lo sento affine (moltissimo, o solo per alcuni tratti)... Sono frecce che si aggiungono al suo arco; preziose e importanti per trovare il bersaglio, prima ancora che per centrarlo.
Quel bersaglio è la sua pittura, la sua arte (sua, e solo sua).
Io di mio direi, tanto per rimanere ai molto noti... William Turner, Alberto Burri, Giorgio de Chirico, Caspar David Friedrich, Edward Hopper, Salvador Dalì, Mario Schifano... Sorprendentemente anche certo Andy Warhol (segrete corrispondenze tra gli opposti), per la fascinazione fredda verso simboli e insegne, per certo candido cinismo; per un cercare insieme curioso e distratto nuovi spazi e nuove occasioni in cui far vivere la propria pittura; per l'idea di mostra come installazione, "situazione" dove far dialogare i quadri tra loro e con il luogo che li ospita, ottenendo altro senso e impreviste sensazioni da questo interagire; per un immaginare forme inedite di mecenatismo, “sponsorizzazione” o complicità di collezionisti, in un panorama culturale totalmente nuovo, distante, indecifrabile.

Alla pop art (tra Warhol e Schifano) rimanda anche il fascino di SDS per il fumetto, per la grafica, in particolare la serigrafia, quale tecnica artigianale, "sporca"... l'amore per la sua virtuosa imperfezione, per la sua serialità imprecisa, sfocata, in cui l'identità delle copie non è mai perfetta.
Egualmente, la pop art, il suo confronto ambiguo con la catena di montaggio, con la riproducibilità automatica, tendenzialmente infinita, è di certo una delle radici (etimologiche) della passione di SDS per sagome, retini, stampi e altro, da usare in più dipinti, riproducendo e variando pattern ricorrenti, refrain visivi frutto insieme di meccanicità e ispirazione (come nella nuova serie di oli su tela, Esterni).

Intrigante mettere in relazione i “miei” nomi con quelli indicati dallo stesso SDS come maestri di una vita, complici fidati, o curiose coincidenze di un momento.
Per la pittura: Paul Klee, Wassily Kandinsky, Alberto Burri, Ansel Kiefer; per le riflessioni in saggi e interviste, per la loro importanza nella nascita di Etimologia di una idea: ancora Wassily Kandinsky, Bruno Munari, Massimo Vignelli; per la grafica e la progettazione: di nuovo Alberto Burri, e David Carson...
Anche se, in conclusione, è poi Giuliano Giuman – frequentato e “interrogato” anche personalmente – a rimanere un modello fondamentale per continuità e ricerca, un imprescindibile punto di riferimento (per altro sempre in movimento).

Corpo e pelle di SDS sono polimorfi (piccoli mostri polimorfi i bambini, secondo Freud), tela o scultura da dipingere, segnare, e però anche strumento, mezzo, pennello o spatola con cui fare pittura, segnare luoghi, superfici.
Con le mani, i piedi, le ginocchia, i gomiti (finanche innestando su di sé estensioni artificiali, da improbabile cyborg; penso innanzitutto al casco da cui scende una cascata di dread, da medusa/rasta, capelli tentacolari, le cui punte gocciolano pittura in azione, colori in progress, nell’azione performativa intitolata Raíces)... Simone lascia tracce, segni ed emozioni nel corso delle sue performance, in ambienti chiusi e concentrati (musei, foyer di teatri, sale per concerti o reading), oppure aperti e distratti (piazze, strade, parchi), sempre con la stessa furia espressiva, la stessa leggerezza (auto) ironica.
Tela, corpo, pittura, performance... in cerca di sguardi altri, all’inizio distanti.

La pittura di SDS, così limpida, sottile, in cui il peso bruno della terra, la sua trama rugosa, si fa di colpo azzurro impalpabile di cielo, superficie senza increspature. Una pittura devota alla tela, ai suoi margini, alla sua profondità, che ciclicamente si trasforma, si fa tridimensionale, diventando scultura.
E spesso non è il cuore del quadro, ma un frammento, un dettaglio pittorico a espandersi nello spazio. È il caso della figura umana, appena accennata in diversi dipinti, sagoma piccolissima, presenza minima e appartata che qua e là balena; e che di colpo si fa scultura imponente, presenza grandiosa, eppure incerta, caracollante; un po' marionetta, un po' manichino.
Un manichino che ha bisogno di stampelle, appoggi, grucce per riuscire a stare in piedi, per reggersi ed esistere dentro un mondo che sembra pesare su di lui con forza (di gravità) eccezionale, che sembra affaticarlo... Un mondo che a questi giganti, fragili e freak, "regala" ferite, cicatrici che sembrano crepe e invece forse sono fessure, aperture verso altro... Manichini dall'impalcatura di ferro e di legno, manichini ricoperti di pongo e cartapesta, pupazzi che in qualche modo devono confrontarsi con l'organico, le secrezioni, i fluidi che abitano la carne, i corpi, e a volte ne filtrano fuori... da quei corpi, che essi non sono.
Penso a Elementa, serie di grandi sculture liberamente sospese tra Dalì e un Gaudì tentato dall’anatomia.

Questa fascinazione per la figura umana – ridotta però a silhouette, a pedina di una immensa scacchiera, a pezzo di un gioco che la sovrasta e la incanta – torna anche nelle ultime sculture, più piccole (70 cm circa di altezza), intime e raccolte, dai titoli evocativi (di scacchi, di messaggeri, di movimenti obliqui) di Alfiere Uno, Alfiere Tre, ecc.

Insomma, una pittura irrequieta, che sembra adagiarsi lieve sulla tela, aderire a essa, per poi balzarne fuori attraverso pennellate che la scolpiscono, grumi di colore che la rendono accidentata, affascinante al tatto... Finendo – come detto – col farsi scultura, esplosione tridimensionale che reclama uno spazio e un tempo da abitare. Il fascino di questa incertezza, che però è ricerca lucida.

L'arte, la pittura, il segno di Simone Di Stefano mi ricordano il folle artigianato di provincia di un gruppo musicale (indie, grunge, psichedelico; ah, l’asfissia delle etichette) a me molto caro, i Verdena; from Albino, nel bergamasco.
Molte delle loro cose (quelle più strumentali, più sperimentali, difficilmente ingabbiabili come "canzoni”; tra le ultime, la colonna sonora del film America Latina) hanno una varietà di trame, di stratificazioni sonore, di accenti e sfumature di tono – dal cupissimo al luminoso, dal viscoso al lieve – che entra in perfetta risonanza (o che io comunque incastro bene) con le opere di Simone.
A unire la loro musica alla sua pittura, come già accennato, sta potente questa idea di artigianato ossessivo, di cura e amore maniacale per tutto quello che riguarda gli strumenti e la pratica della propria arte, i mezzi e i supporti che le permettono di esistere.
Penso innanzitutto allo studio, al luogo attrezzato dove fare musica o dipingere, grotta e ventre fondamentale, di cui curare personalmente ogni dettaglio e particolare, da creare se possibile da zero con le proprie mani (iniziando dal verniciare le pareti, fabbricare o almeno adattare tavoli e scaffali, )... Accuratezza, massimo rispetto per il fare, per la concretezza delle cose.
È proprio questa idea mistica (sia detto con la dovuta ironia) di artigianato, il suo accumulo di procedure, di prove e tentativi, a farsi di colpo arte, a balzare al di là di sé, senza più freni; arte ascendente, totalmente libera, apparentemente slegata dal lungo lavorio che l'ha resa possibile.
L'artigianato diventa arte, si espande in direzioni imprevedibili, pallone sonda che veleggia verso l'orizzonte e le alte sfere, avendo però come irrinunciabile base di lancio l'umiltà di un forsennato bricolage; senza la chiave inglese che stringe il giusto bullone, senza la tavola sagomata e piallata alla perfezione, non ci sarebbero né vascelli né macchine volanti.  

Ancora, in margine al paragone con i Verdena, un rimando al colore dei suoni (come nella poesia Vocali di Rimbaud).
Nella ciclica mutazione alchemica, dal nero, denso e pesante, al lieve, limpido azzurro (tra acqua e cielo), attraverso il momento cruciale e vitale del rosso (lava, sangue) che cola, e quello acido e ipnotico del verde... Senza dimenticare l’arcobaleno daltonico degli infiniti grigi, tra il bianco e il nero, così intriganti nei suoi lavori grafici (Segnali di fumo, gli ultimi, i nuovi). Una tavola periodica molto personale, quella di Simone, insieme musico e mago.

Fascino, amore per il fare, per gli strumenti, le tecniche e i materiali; anche quelli inediti e scovati nel quotidiano o nel mondo tecnologico, scientifico (oggettistica, arredamento, design, grafici statistici, ecc.).

Il paragone Verdena/SDS, non a caso, si riverbera anche su Burri e Giuman, due dei punti di riferimento a lui più vicini (non solo geograficamente)... Entrambi capaci, proprio a partire dai margini, dalla provincia defilata e vitale, di fare arte con forza insospettata, con un linguaggio altro, eppure in grado di dialogare, di scambiare energie e intuizioni con le metropoli, con le grandi città, con i centri pulsanti della cultura.

Bello il titolo dell'ultimo progetto, espanso e/o diffuso, di Simone, posso dirlo senza arrossire, non avendo avuto parte alcuna nella sua ideazione.
In Etimologia di una idea coesistono, interagiscono, si modificano reciprocamente tre “tipi” di lavori, di opere visive: quelle antiche, fondanti e fondamentali, che rilanciano verso il futuro; quelle riviste e ripensate, rimaneggiate, in metamorfosi; e poi quelle totalmente nuove... Potremmo dire le radici e il tronco; i rami e le foglie della pianta che cresce; e, infine, ultimi, i nuovi alberi che popolano e ampliano la foresta.
Etimologia di una idea, appunto. Fantasma, licantropo, farfalla.  

Una foresta fitta di simboli, un labirinto impenetrabile, fatto di rami e di rovi... Una roccia avvolta da licheni, solcata da rivoli d'acqua salmastra, una concrezione di più minerali, di materiali difformi, per luminosità, compattezza, peso... Una città fatta di fabbriche, fumo, catrame ancora bollente... Una colata di lava o di sangue denso, opaco.
Tutto ciò può farsi di colpo lieve, trasparente, come il più fine dei tessuti visto controluce; quello che è pesantissimo, solido all'ennesima potenza, rivelarsi fluttuante, altrove.
Tra pensiero razionale, "terreno", e intuizione sospesa, impressione istintiva; questa la pittura di SDS, sorpresa continua per gli altri, ma anche per se stessa.

Una mostra arcipelago, piena di vuoti, di mare da attraversare... per collegare un'isola all'altra.

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